Primo giorno di scuola

Primo giorno di scuola "Andiamo papà?"

Primo giorno di scuola "Andiamo papà?"

‘La prima volta’ è quella che generalmente tende ad emozionarci di più, che probabilmente lo ha fatto nel corso della nostra vita come ci hanno sempre raccontato, l’arte, la letteratura, il cinema, la musica; quella ‘prima volta che non si scorda mai’, il primo amore, il primo bacio, la prima volta che abbiamo visto il mare, la prima gita con mamma e papà.

Sì, ne ricordo anche io, con trasporto, con affetto, senza rimpianti ma, in realtà, nel profondo del cuore, io sono sempre stato affascinato ed impaurito dall’’ultima volta’. Perché ‘l’ultima volta’ oltre ad essere una fine, ha anche una caratteristica straziante: nella maggior parte dei casi non sappiamo che si tratti della nostra ultima volta e la viviamo come se avessimo ancora un’altra occasione e invece….
Ripensandoci avremmo vissuto quella giornata in modo diverso, l’avremmo respirata di più, avremmo diluito il tempo, avremmo ascoltato le voci, avremmo partecipato più intensamente.
L’ultima partita che ho giocato, l’ultima ora che ho insegnato nuoto, l’ultima volta che ho sfidato mio padre a calcio, l’ultima volta che sono scappato sulla battigia dopo aver dato calci al mare, l’ultima volta che ho visto mio nonno e gli ho parlato.

Potergli dire ancora qualcosa.

Oggi ho preso un giorno di ferie.

Perché l’ultima volta, in qualche caso, ti informa, te lo fà sapere che la tua vita sta scandendo un ritmo irregolare, e io, attento, cerco di ascoltare. Oggi mi ha detto che è la penultima volta, che mi resta solo un altro giorno come questo, per tutto il resto della mia vita.

Il primo giorno di scuola di mio figlio.

Eh già. Perché quelli delle scuole medie non contano più, perché quando hai provato a portare gli altri due, a trecento metri dalla scuola ti hanno detto:

“Va bene papà, grazie, sono arrivato.”

“Ma….la scuola è laggiù?”

“Appunto. Sono arrivato. Ciao”

E hai girato sulle tue gambe per rispetto facendo finta di non sentirla la lama nel cuore.

Ed oggi il piccolino inizia la quarta elementare: la penultima possibilità di vivere il giorno dei giorni.

Si è svegliato con l’entusiasmo dei suoi anni, ha stonato felicemente la casa sfacciando il suo sorriso ai musi lunghi dei fratelli, ha colorato le pareti con la frenesia di andare, pronto col suo grembiulino già da mezz’ora a fissare la porta. Lo zaino in spalla.

“Andiamo papà?”

Così sono salito in macchina, con calma, cercando di catturare immagini e suoni come un nastro magnetico, ho fatto il giro lungo, ho guidato lentamente.

“Papà perché vai cosi piano?”

“Mi è entrata qualcosa negli occhi, non vedo bene”

Ho parcheggiato fuori mano.

Ha aperto lo sportello con energia, è sceso con gli occhi luminosi, imbiondito da un cielo terso e un sole splendente e ha affrontato la salita a passo deciso.

“Papà, ti vuoi muovere?”

“Alessiè, è presto, e poi non lo vedi papà quanto è vecchio? Non ce la faccio a fare la salita alla tua velocità”

“Stai facendo finta, vedi di muoverti che i miei amici sono già tutti là”

Sono stato dietro il suo passo, al passo di Palo, mentre intorno l’aria profumava di menta romana e erba falciata, la collina digradava alla mia sinistra macchiata di ulivi e alberi da frutta, e una fiumana di mamme e cartelle, zaini, merende e colori, entrava dallo stesso cancello.
E poi, da lontano, il ronzio di tutte queste anime inquiete si trasformava in un rombo di energia in attesa della campanella che fa volare i ragazzi di scuola.
Abbiamo aspettato qualche minuto, due chiacchiere, due auguri, due baci.
Poi il trillo fatale, l’esplosione di bambini che si alzano in piedi come quando c’è un gol allo stadio e io chinato a salutare il mio pulcino.

“Ciao Alessino, divèrtiti”

Lo guardo mentre mi ritorna il suo sorriso cangiante, lo vedo perplesso, non si muove, mi guarda.

“Papà?”

“Si, amore?”

“Ehm…. se non mi lasci non posso entrare”

Mi accorgo che lo tengo stretto in un abbraccio, inconsciamente e lo libero alla sua giornata di festa.
Corre sulle sue gambette strette, vola sugli scalini, entra nella scuola, aspetto che si giri ancora una volta per salutarmi, o almeno lo spero, e invece scompare dietro al muro. Lui e la sua felicità.

Resto accovacciato come un calciatore durante la foto di rito, guardo gli aghi di pino a terra mentre sento la gente scemarmi lentamente intorno e quando rialzo lo sguardo se ne sono andati quasi tutti.
Rimane un solo piccolo capannello di mamme chiacchieranti.

E’ ora di andare.

Poi mi fermo.

Che fretta c’è?

E’ la mia penultima volta, il tempo è il mio e c’è una panchina.

Mi siedo sotto l’ombra dei pini, guardo la scuola e sento le voci che lentamente si acquietano fin quando c’è un piacevole silenzio. Penso che dentro c’è il piccolino raggiante e mi sfiora l’idea di restare qua ad aspettarlo.

Il sole è caldo, l’aria è piacevole, sono seduto con i miei pensieri e quello là in fondo è il mare.

 

Fabrizio Mastropietro - "Un uomo tranquillo"

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