Quante volte avete sentito pronunciare questa frase? Tantissime credo.
Sembra talmente banale. È ovvio, più cose conosci e più possibilità hai. O non è, poi, così ovvio? Tante volte ho sentito anche frasi tipo: “Non gli/le parlare in due lingue. Lo/la confondi!” o “Perché gli/le insegni la tua lingua? Non serve a niente…”.
Vorrei chiarire alcuni concetti sul fenomeno di bilinguismo nei bambini. E lo vorrei fare da due punti di vista: uno è da mamma di due bambine bilingue e l’altro è da linguista, traduttrice ed insegnante di lingue per bambini ed adulti.
Per affrontare bene quest’argomento, mi serviranno diversi post. Vorrei iniziare da alcune esperienze concrete per poi arrivare alle teorie linguistiche che spiegano e dimostrano le capacità linguistiche nei bambini.
Quando è nata mia prima figlia sei anni fa, avevo già fermamente deciso di insegnarle la mia lingua madre. Lo sapevo di già che abitando in un paese dove il croato (sono croata) non viene parlato, non sarebbe stato semplice. Ma avevo anche un certo tipo di pressione: “Come sarebbe che la figlia di un’insegnante di lingue non parla la lingua della mamma?!”
Ho usato apposta il termine: la lingua della mamma, perché non è detto che la lingua della mamma diventi la propria lingua madre. La lingua madre è la tua prima lingua, quella che senti tua e che padroneggi benissimo. Di solito è la lingua del paese dove hai vissuto da bambino e dove hai fatto la scuola. Esistono tanti casi in cui i bambini non parlano per niente la lingua della mamma. Come
anche la lingua del papà. Ci sono, poi, anche casi dove le persone in età adolescenziale o adulta scelgono di non parlare una certa lingua per il significato emotivo che essa rappresenta per loro. Le casistiche sono tante e diverse.
Per tornare sulla mia esperienza personale, appena ho scoperto di essere incinta, ho letto tantissimo su questo argomento e in precedenza ne avevo sentito parlare molto all’università. Avevo alcune certezze come tante ragazze prima di diventare madri, tipo: mio figlio non dormirà mai nel lettone.
Ecco, una di queste era: “Le parlerò sempre in croato. Tanto l’italiano lo impara dal papà e a scuola.”
Tutti i linguisti consigliano quest’approccio: se i genitori sono di lingue diverse, uno deve parlare con il bambino in una lingua e l’altro nell’altra. Così il bambino non si confonde e impara la grammatica giusta di tutte e due le lingue, perché è ovvio che imparando una
lingua da un madrelingua è meglio che impararla da uno che la stessa lingua l’ha imparata da adulto. E fin qui ci siamo.
Un’altra motivazione forte per me era la necessita del bambino di parlare con i nonni, zii, cuginetti che non abitavano in Italia e che avevano comunque bisogno di comunicare con lui/lei. Come si fa ad andare dai nonni e non poter comunicare con loro? E poi, lo ammetto, si trattava anche di un altro motivo molto concreto e pratico: non avevo proprio voglia di tradurre sempre i messaggi tra di loro.
Fare l’interprete è un’attività molto faticosa. Chi lo fa per professione, lo sa benissimo. Spesso dopo una giornata di traduzione consecutiva neanche sai di cosa i tuoi clienti avevano parlato. Eri talmente concentrato a trasmettere bene i concetti che si dicevano, che non avevi tempo per usare la tua memoria a lungo termine. Ma nella pratica di vita di tutti i giorni, non è sempre facile portare avanti questa decisione. Non è semplice parlare sempre nella tua lingua al tuo bambino e capisco perfettamente chi ci rinuncia. Ma andiamo per gradi.
Sapendo tutto ciò, come da manuali, ho iniziato a parlare nella mia lingua madre rivolgendomi alla mia bambina quando era ancora dentro alla pancia. Avevo letto delle ricerche che dimostravano che i bambini di soli quattro giorni di vita sapevano distinguere la lingua della propria madre da un’altra lingua. E non solo la voce della mamma, ma proprio la lingua.
Gli scienziati hanno misurato l’attività cerebrale nei bambini appena nati e vedevano cambiamenti quando parlava la madre, il che era ovvio, perché la voce della mamma la riconoscono fin da subito, ma l’attività cerebrale cambiava anche quando sentivano parlare un estraneo nella lingua della loro mamma. Riconoscevano il ritmo. Riconoscevano il ritmo diverso di lingue diverse e prestavano maggiore attenzione quando la lingua cambiava.
Siccome, fare gli accertamenti simili nei feti non è possibile né etico, gli scienziati di questa ricerca supponevano che anche i bambini nella pancia abbiano già questa capacità… E siccome tra i linguisti, per scherzare, si suol dire che ogni figlio di un linguista diventa per forza la cavia, anch’io ho avuto occasione di sperimentare queste affermazione mentre mia figlia era ancora dentro alla pancia.
Vi ricordate i fastidiosi CTG, i cosiddetti tracciati? Mia figlia e io avevamo un po’di problemi e li dovevamo fare spesso, solo che lei ogni volta puntualmente dormiva e per svegliarla le ostetriche muovevano la pancia e cercavano di fare l’impossibile. Così, una volta, ho chiesto: “Posso provare a parlarle nella mia lingua? Ho letto le ricerche ultimamente”…e gli ho spiegato tutto. Mi hanno risposto di provarci. Così ho detto in croato semplicemente: “Martina, probudi se!” (Martina, svegliati!). E lei si è svegliata. Non so se era un caso, un colpo di fortuna o altro, ma lei in quel momento si svegliò.
Era la mia prima sperimentazione della marcia in più dei bambini bilingue.
Spero di aver suscitato il vostro interesse per quest’argomento e spero che la mia esperienza vi possa essere utile.
SuperMamma Marija